Livio De Luca

Direttore di ricerca al CNRS (Centre National de la Recherche Scientifique)

Originario di Amantea (CS), vive a Marsiglia

Architetto, PhD in Ingegneria, HDR (Habilitation) in Informatica, Livio è direttore di ricerca al CNRS (Centre National de la Recherche Scientifique) e direttore dell’unità CNRS-MC MAP (Modelli e simulazioni per l’architettura e il patrimonio culturale).

Co-presidente generale del congresso internazionale UNESCO/IEEE/EG DigitalHeritage (Marsiglia 2013, Grenade 2015) e coordinatore e membro di azioni di ricerca nazionali (ANR, FUI, CNRS, MC, …) ed internazionali (FP7, Marie-Curie, H2020, …), le sue attività scientifiche si concentrano sul rilievo, la modellazione geometrica e l’arricchimento semantico di rappresentazioni digitali di oggetti del patrimonio culturale. Editore del Journal of Cultural Heritage (Elsevier) e editore associato del Journal on Computing and Cultural Heritage (ACM) e di Digital Applications in Archaeology and Cultural Heritage (Elsevier), è stato membro nominato del CoNRS (Comité National de la Recherche Scientifique) dal 2016 al 2020.

Il suo lavoro è stato premiato nel 2007 con il Premio Pierre Bézier (Fondazione Arts et Métiers), nel 2016 con la Medaglia per la Ricerca e la Tecnologia (Accademia Francese di Architettura), nel 2019 con la Medaglia dell’Innovazione del CNRS e nel 2021 con la “Targa d’Oro” dell’UID (Unione Italiana per il Disegno). Dal 2019 è coordinatore del gruppo di lavoro “dati digitali” del cantiere scientifico CNRS/Ministero della Cultura per il restauro di Notre-Dame de Paris e, dal 2022, è titolare di una ERC (European Research Council) Advanced Grant. 

“Le mie origini mi hanno regalato una saggezza antica: anticipo il futuro guardando al passato”

Il Direttore di ricerca al CNRS racconta la sua infanzia e il suo percorso di crescita personale e professionale da Amantea a Marsiglia, fino alla direzione del cantiere digitale per il restauro di Notre-Dame

Qual è il primo ricordo legato alla sua terra?
Il mio primo ricordo è un luogo: la casa “al bosco” di zia Maria a Cetraro. Da piccolo ci passavo delle splendide domeniche in famiglia: giochi con le cugine ed i cugini tra colture agricole ed allevamenti, esplorazioni nella natura, pranzi preparati per ore in una cucina piena di prodotti locali, conversazioni, risate ed ancora giochi seduti in tavolate lunghe, nello spazio e nel tempo.
E poi, appena usciti in terrazza per prendere un po d’aria, una vista dall’alto sul mare e sulla costa tirrenica che ti obbliga ad immaginare (perchè non riesci a vederla) la fine del paesaggio che ti circonda.
Un insieme di segni che definiscono nitidamente i caratteri della Calabria per me: un rapporto con la storia costruito in ambiti familiari interconnessi; un rapporto con la terra fatto di gesti quotidiani da osservare, imparare e riprodurre; un rapporto con la cultura fatto di ricorrenze da rispettare, di abitudini da conservare, di “scorci di territorio” da custodire nell’intimità.

Ci racconta quali sono le sue origini e dove ha trascorso la sua infanzia?

Mio padre Adriano faceva l’architetto ad Amantea, da quando sono nato l’architettura non era solo ciò che vedevo fare a mio padre, ma era anche il luogo in cui vivevo perché quando avevo cinque, sei anni, ci siamo trasferiti nella casa progettata da papà, una sorta di piccolo manifesto dell’architettura contemporanea di quegli anni, un invito a guardare gli spazi al di là delle consuetudini.
Di sicuro, in questa casa, senza averne consapevolezza, vivevo già l’architettura ma non me ne interessavo. Mia madre Pina era un’insegnante delle scuole medie e aveva una visione del suo lavoro pari a quello di una missionaria: si portava gli studenti a casa e i loro problemi diventavano oggetto di discussione dell’intera famiglia. Mentre mio padre era la spinta verso il futuro, verso il progresso, mia madre, seppur aperta al mondo, mi invitava sempre a tenere ben presenti le questioni di cuore, ed il legame con la famiglia e la terra.
E queste spinte, questa dialettica interna tra la proiezione verso il futuro e uno sguardo attento verso il passato, mi hanno sempre accompagnato in tutte le fasi della sua vita. D’altronde, quel che faccio oggi, altro non è che proiettare il passato nel futuro e per me la Calabria è terra di padri e di madri.

C’è qualche parente, come per esempio suo padre, che l’ha ispirata e supportata nell’intraprendere il suo percorso lavorativo?

Mio padre Adriano aveva il suo studio in casa (al piano di sotto) e sin da piccolissimo ho sempre usato i suoi tavoli da disegno per disegnare di tutto, dagli uccelli alle formiche (ero probabilmente ispirato da mio cugino Paolo, già un giovane artista in quegli anni), fino al centro storico di Amantea che vedevo perfettamente dalla collina dove abitavamo.
Poi sono arrivati i computers (il mio primo è stato un Commodore64 a 8 anni) ed ho progressivamente smesso di disegnare a mano. Studiavo pianoforte, e la tastiera elettronica è diventata la mia prima passione in assoluto: il primo computer usato realmente per farci qualcosa e non per giocarci, l’ho utilizzato proprio per registrare composizioni musicali con i primi programmi di notazione e di arrangiamento, nella sala prove di Geppino Veltri, della mitica “Pronto Soccorso Band”.
Poi ad Amantea viene realizzato dal Professore Fausto Perri, un consorzio specializzato nella documentazione informatizzata del patrimonio storico, il CBC – Consorzio Beni Culturali. Un progetto importante che per alcuni anni mise vari professionisti di Amantea in contatto con esperti di catalogazione di dati e di sviluppo informatico, e con docenti universitari di storia, rilievo, rappresentazione e conservazione dei beni culturali. Ricordo nettamente che proprio lì, su uno dei tanti schermi su cui sbirciavo da adolescente quando mi capitava di accompagnare mio padre per appuntamenti di lavoro, ho visto la prima ricostruzione digitale di qualcosa di scomparso: era un video che ricostruiva virtualmente, con i primissimi sistemi di modellazione tridimensionale, la città di Messina prima del terremoto del 1908. Ne rimasi stregato. In quel periodo scoprivo anche il settore della grafica e, per fare qualche soldo in estate, lavoravo nella tipografia di Mario Pellegrino (Grafiche Calabria), nel periodo in cui si passava dalle lastre in piombo alle composizioni grafiche al computer.
A 18 anni bisognava decidere dove andare all’università e mio padre non smetteva mai di farmi notare che l’architettura era (già allora) un settore in crisi, soprattutto in Calabria. Ma ciò che mi affascinava non era l’architettura, bensì la sperimentazione del computer in questo settore e solo per questo decisi di iscrivermi alla facoltà di Architettura a Reggio Calabria.
Lì ho potuto sperimentare tanto, soprattutto in quella che definirei la “bottega del maestro” Antonio Quistelli, ex rettore dell’Università e Professore Ordinario di Design. Lavorando duramente giornate intere ad ascoltare, capire, interpretare nozioni di architettura per poi tradurle in lingua digitale, al computer, ho imparato non tanto a fare delle cose, ma a costruirmi i metodi per farle. Gli scambi e le intuizioni di quegli anni hanno segnato profondamente la mia formazione, arricchendo un bagaglio che nel tempo si sarebbe rivelato davvero prezioso. A Reggio Calabria, assieme ai tanti amici di università, ho passato gli anni più belli della mia vita, quelli più stimolanti e arricchenti, che mi hanno preparato alla specializzazione poi conseguita in Francia.

Lei è un architetto e ricercatore di fama internazionale, vincitore di prestigiosi premi e dal 2019 coordinatore del gruppo di lavoro per il restauro di Notre Dame de Paris. Come è riuscito ad affermarsi in un settore così complesso e competitivo?

Ciò che mi ha aiutato a realizzare i miei progetti, è avere il coraggio di uscire dalla zona di comfort, non pensare mai di aver raggiunto qualcosa e avere la volontà di mettermi in gioco continuamente. Ciò è probabilmente legato alla mia natura e cultura, tipicamente meridionale, di ‘migrante’: attraversare le frontiere, non soltanto quelle geografiche, ma anche quelle disciplinari (ed in alcuni casi anche metodologiche e tecnologiche) corrisponde ad uscire da una zona di comfort. Anche oggi, appena raggiungo qualsiasi sapere consolidato, sento spesso il bisogno di rimetterlo in discussione, non per cancellarlo, ma per portarlo verso nuovi orizzonti. D’altronde, questo è il motore della produzione di nuove conoscenze nella ricerca, quel meccanismo di confronto che permette agli ambiti scientifici di rinnovarsi: i risultati di un giovane ricercatore possono (e devono) concretamente rimettere in discussione quelli di un professore ordinario, per ampliarli o anche per scartarli.
La Francia molti anni fa ha fatto delle scelte strategiche proprio per sviluppare dei poli di eccellenza scientifica al sud e la Provenza è una meta ambita. Quindi da un sud, sono emigrato verso un altro sud. Quando sono arrivato qui in Francia, è stata durissima, non dormivo per studiare, avevo il problema della lingua e soprattutto cambiavo disciplina perché, da un percorso in architettura, mi ero iscritto in un master di ricerca in informatica. Ma è stato anche un periodo in cui ho potuto lavorare su di me. Sono comunque riuscito a costruire molto e l’anno dopo per un soffio sono riuscito anche a vincere una borsa di studio per fare una tesi di dottorato in ingegneria informatica.
In Francia, con delle basi in architettura ed in musica elettronica nella valigia, ho appreso e approfondito l’informatica e ho capito che avrei potuto mettere a frutto in un modo nuovo le conoscenze acquisite in Italia, dove in quegli anni facevo essenzialmente CAD, disegno e progettazione assistita dal computer. Quando sono arrivato in Francia si iniziava a sperimentare il campionamento della realtà; fino ad allora si era proceduto per sintesi del reale. Per spiegare meglio il passaggio che in quegli anni si avviava, prendo in prestito due fasi tipiche del mio vecchio amore: la musica elettronica. Anche lì distinguiamo i sintetizzatori, che partendo da modulazioni di frequenza, creano per sintesi qualcosa che può sembrare il suono di uno strumento reale, dai campionatori, che invece trasformano in digitale un segnale audio analogico, registrazione del suono di uno strumento reale.
Così invece di immaginare qualcosa che non si sapeva come acquisire (tipicamente tutta la complessità morfologica dell’architettura storica), si iniziava ad avere la possibilità di acquisirla in un dettaglio di straordinaria e sempre crescente precisione. E lì, la dialettica fra sintesi e campionamento del reale mi ha consentito di definire progressivamente anche il profilo scientifico del laboratorio che poi avrei diretto a partire dal 2012. Oggi accompagno molti giovani, che arrivano nel nostro laboratorio da diversi orizzonti, a costruire delle traiettorie di ibridazione ed amplificazione di conoscenze, competenze e passioni. Cioè ad arrivare a cucinare con quei due o tre ingredienti di base che ognuno di noi si porta dentro. Per me è una chiave.

Pensa che le sue origini calabresi le abbiano regalato un quid in più a livello professionale? Se sì, come si concretizza nella realizzazione dei suoi progetti?

Certamente, mi hanno regalato quella ‘saggezza antica’ capace di anticipare il futuro, guardando al passato. Cioè mi hanno permesso prima di incarnare, poi di interpretare per altre persone ed altri settori disciplinari, ed infine di implementare in ambiti scientifici e professionali quel che oggi chiamiamo la “trasformazione digitale”, un vero e proprio cambio d’epoca, che bisognava e bisogna saper guardare dalla giusta distanza.

Nel suo lavoro ogni luogo, scorcio, forma geometrica o paesaggio può essere fonte d’ispirazione. Quali luoghi della Calabria sono impressi nella sua memoria e la guidano nei suoi progetti?

Il primo è di sicuro il centro storico di Amantea. L’ho osservato tanto, sin da piccolissimo, da tantissimi punti di vista, e per molti anni. Quel borgo intreccia natura, materia e storia in un unicum morfologico. É un magnete: attira ed imprigiona gli sguardi di chi deve orientarsi nel paese, di chi vuole sentirsi a casa di ritorno da un viaggio, di chi vuole ripercorrerne centinaia d’anni di storia in qualche secondo spostando lo sguardo dall’alto al basso, di chi si ferma a contemplarlo quando al tramonto si immerge in sfumature e riverberi di colori di rara profondità.
L’altro è lo stretto di Messina, che ho osservato e attraversato tante volte, dalla Calabria e dalla Sicilia. Per me è una frontiera tra il reale e l’immaginario: penso a Scilla e Cariddi, luogo così tempestoso e feroce nell’Odissea, così splendente anche in inverno; penso alla Fata Morgana, quel fenomeno ottico che non sono mai riuscito ad osservare, ma che ho immaginano a tal punto da considerarlo il fondamento teorico dell’ibridazione tra reale e digitale, penso al dibattito sul Ponte, anche quello eternamente sospeso tra reale e potenziale.

Il suo sistema di digitalizzazione del patrimonio artistico nasce in Calabria con il suo studio sulla Chiesa di Santa Maria de Tridetti di Staiti. Quanto e in che modo il patrimonio culturale calabrese ha influito nell’ideazione di questo sistema utilizzato oggi dal CNRS?

Assieme al mio caro amico Enrico Pasqua, negli anni dell’università a Reggio Calabria, nell’occhio di un ciclone di musica, films e libri, passavamo le giornate a rifare il mondo e ad immaginare il futuro. Il “Sistema di Navigazione Spazio-Ipertestuale” che avevamo inventato nel 1997-98, per un esame di restauro architettonico con il Professor Massimo Lo Curzio, permetteva di intrecciare visioni reali e digitali di quella chiesa. Era una specie di “sottomarino” per muoversi nelle profondità delle connessioni spazio-temporali di contenuti storici e diagnostici che solo il digitale permette di esplorare. Certo, il clima era diverso. Allora non c’era nessuna pressione. Era una sperimentazione libera e incosciente. Su Notre-Dame c’è una pressione mostruosa, un’attesa pazzesca. Ripensandoci oggi, penso a quella esperienza come a una bombola di ossigeno che mi sono sempre portato dietro per esplorare ogni futuro possibile delle intuizioni di quegli anni”.
In quella esperienza c’erano già i due ingredienti di base di una ricetta su cui ho lavorato negli oltre 20 anni di ricerca in Francia: l’ibridazione geometrico-visiva del reale con il digitale (che oggi chiamiamo realtà aumentata o mista) e la strutturazione semantica di dati eterogenei. Un anno prima dell’incendio di Notre-Dame, con il mio laboratorio di Marsiglia, avevamo messo a punto una piattaforma cloud denominata Aioli, nome che ammicca al Mediterraneo, richiamando una sorta di maionese provenzale, per raccogliere e riunire tutti i dati tridimensionali presenti e passati di un bene culturale.
Lo scopo era quello di creare (a partire da una manciata di fotografie) un gemello digitale di quello stesso oggetto, frutto degli sguardi delle varie discipline e della condivisione delle varie conoscenze prodotte da tutti gli attori coinvolti. Un metodo innovativo, che mi valse la medaglia dell’innovazione del CNRS, per approfondimento dello studio collaborativo e pluridisciplinaire di un bene culturale, utile anche ai fini del suo eventuale restauro.
Nell’ambito del cantiere scientifico per Notre-Dame, la riunione dei dati disponibili, catalogati e digitalizzati, non riguarda solo quelli relativi alla geometria ma anche quelli relativi, sul piano della caratterizzazione fisico-chimica, alla provenienza dei materiali utilizzati, con tanto di riferimenti alle foreste da cui erano state tratte le travi originarie.
Questo insieme di dati, imprescindibile e necessario al restauro, preannuncia anche una seconda vita, una seconda cattedrale che nasce. C’è una cattedrale fisica, che nel futuro tornerà ad essere magnifica, splendida, e c’è una cattedrale delle conoscenze, fatta di dati e informazioni che domani potrà avere una vita propria, al di là di Notre-Dame.
Questa è una consapevolezza bellissima che emerge oggi e che potrebbe diventare un modello da riprodurre in altri cantieri. Il patrimonio non è mai soltanto la realtà fisica ma è quell’oggetto fatto da quelle persone, in quel modo, in quel momento a partire da una risorsa, da un materiale, che hanno valore proprio per il legame che incarnano con chi li ha plasmati. È qualcosa di molto intimo che va conosciuto non per vincolare ma per permettere di conoscere e scegliere. Se dovessimo riuscire, ma c’è ancora del lavoro da fare, a sintetizzare, a cristallizzare, memorizzare questa avventura collettiva che coinvolge più di 170 ricercatori oggi, essa costituirebbe uno straordinario ritratto della scienza del patrimonio nell’epoca del digitale».
A distanza di anni, penso proprio che l’idea di una ‘cattedrale di dati e conoscenze’ sia nata proprio in quella sperimentazione a Staiti.

È importante per lei far conoscere la tradizione calabrese ai suoi figli e far sì che la sua famiglia mantenga i contatti con il territorio in cui è cresciuto?

Si è importante, anche se non è affatto facile riuscire a farlo proiettandolo sul tempo lungo. E non ci sono ricette facili. Per me la cosa più importante è che il confronto quotidiano fra i segni e la cultura che mi porto dentro dalla Calabria con quelli che scopriamo in famiglia vivendo qui in Provenza, sia un modello per i miei figli. Cerco di accompagnarli in quel processo di contaminazione capace di far perdurare i segni della mia terra di origine in quelli della terra in cui vivono.

Ci sono delle tradizioni e/o dei riti tipicamente calabresi ai quali è particolarmente legato e che lei e la sua famiglia osservate anche in Francia?

Più che tradizioni o riti, sono particolarmente legato alle abitudini, soprattutto alimentari. La dispensa piena di salumi e formaggi calabresi. Il peperoncino (quasi) in ogni piatto. Alcune espressioni dialettali, di rara complessità semantica, intraducibili in qualsiasi altra lingua, tipo “u vi, u vii !”, oppure “un vo’ sapiri nenti’.

All’estero di cosa sente maggiormente la mancanza?

“Il tempo”, lungo, a volte indeterminato, che quando vivevo in Calabria potevo dedicare alle cose che facevo, alle persone che frequentavo, e a me stesso.

Se dovesse descrivere la Calabria a chi non ci è mai stato con tre aggettivi, quali userebbe?

Generosa, autentica, resiliente.

Le piacerebbe un giorno tornare in Calabria e aiutare la sua regione a valorizzare e tutelare il patrimonio culturale e artistico?

Si, e spero soprattutto che questa iniziativa della Regione Calabria diventi anche un’opportunità per integrare ed accompagnare le università, le scuole e le istituzioni culturali calabresi, tramite collaborazioni internazionali, nella costruzione di un piano ambizioso di digitalizzazione e diffusione del patrimonio della regione.

Se potesse lasciare un messaggio a un giovane calabrese che vive in Calabria, che consiglio gli darebbe?

Cresci in Calabria guardando il Mondo da lontano. Viaggia nel Mondo guardando la Calabria da lontano. Quando torni in Calabria costruisci il posto della Calabria nel Mondo.

Per chiudere, che appello lancerebbe a tutti i calabresi che vivono all’estero per riscoprire la propria terra?

Riconnettersi alla propria terra è una ricarica di energia che permette di capire meglio come (ri)proiettarsi in altri luoghi ed in altri tempi. È un a chiave per sentirsi, ovunque, “a casa”.